Una leggera foschia avvolgeva tutto quanto in quella mattina fredda d’inverno, Simone Cappelletti si muoveva circospetto nella boscaglia, fucile in mano e Pluto, il suo fedele cane da caccia al fianco. A distanza di pochi metri alla sua destra poteva vedere Silvio Cometti, alla sua sinistra Antonio Radaelli. I tre si muovevano con cautela lungo un percorso ed un bosco che non riconoscevano più. Simone era certo che si erano persi, anche se non riusciva a capire come la cosa potesse esser successa.
Erano quattro anni che si recavano in Serbia per andare a caccia di cervi, sempre nello stesso bosco, sempre allo stesso capanno da caccia. Conoscevano il sentiero per e dal capanno a memoria, eppure ora non riconoscevano più nulla, non erano sul percorso, per quanto la bussola segnasse la giusta direzione. Erano in cammino da un’ora e un quarto e non avevano incontrato nessuno dei cartelli in legno indicante la cittadina più vicina, indicazioni delle quali il bosco era disseminato sino a tre giorni prima.
La sera del giorno prima era successo qualcosa di strano, una specie di terremoto, il cielo si era tinto di viola ed era stato attraversato da lampi di luce inquietanti; un vento devastante aveva squassato il bosco, sradicando un paio di alberi, uno dei quali si era abbattuto sul capanno, fortunatamente senza conseguenze gravi. Si erano arrabattati alla bel e meglio per la notte e poi, alle prime luci dell’alba, si erano incamminati per rientrare nel mondo civilizzato e scoprire cosa fosse successo. L’impresa si era rivelata più ardua del previsto, il sentiero che tanto chiaro era nelle loro menti, si era presto perduto nei meandri di un bosco che appariva molto più intricato ed oscuro di quanto ricordassero e ben presto avevano capito di essersi persi.
Pluto era parecchio inquieto, Simone lo capiva benissimo, si sentiva nello stesso modo. In un paio d’occasioni aveva sentito chiaramente l’ululato di lupi in lontananza, una cosa strana, era certo che il lupo europeo fosse ormai estinto, se non per degli sparuti esemplari sull’appennino italiano, e nell’estremo Est europeo. Antonio diceva che probabilmente era un branco di cani inselvatichiti, una notizia che comunque non fece passare l’inquietudine di Simone.
- Maledizione! E’ un’ora e mezza che camminiamo in direzione Ovest, dovremmo esser già alla periferia di Borgo Nimiz da quaranta minuti! Insomma non si può sbagliare! Trentacinque, quaranta minuti in linea retta verso Ovest, seguendo il sentiero. E’ una strada dritta per Dio!
Silvio era alquanto nervoso, lo erano tutti e tre, lui aveva solo espresso a parole quello che loro avevano solo pensato sino a quel momento.
-Dobbiamo mantenere la calma. Silvio, Antonio, dobbiamo ammetterlo... ci siamo persi!
-Non è possibile Simone, è una scampagnata! C’è solo da seguire il sentiero! Si snoda verso Ovest dritto come una freccia!
-Eppure ci siamo persi, ammettiamolo! Non abbiamo idea di dove ci troviamo, nonostante proseguendo in questa direzione avremmo dovuto comunque incontrare la tangenziale.
-Hai ragione... la tangenziale.
La tangenziale a cui si riferivano tagliava il bosco esattamente a metà, era impossibile non incontrarla dirigendosi verso Ovest. Simone guardò per l’ennesima volta la sua bussola e di nuovo essa gli restituì la stessa informazione: procedevano verso Ovest da un’ora e mezza.
Un rumore tra i cespugli innanzi a loro li fece trasalire. Prepararono i fucili. Pluto iniziò a ringhiare nella direzione dei fruscii, il pelo si fece irto mentre assumeva la posizione pronta a scattare di un animale che si sente minacciato.
Doveva essere un cinghiale, ve n’erano molti da quelle parti. I tre uomini erano pronti a quell’eventualità. Quando un piccolo essere dalla pelle marrone, non più alto di cinquanta centimetri, con un grosso naso bitorzoluto e flosce orecchie cadenti ai lati di una piatta testa priva di capelli, emerse dal cespuglio, i tre uomini restarono sbalorditi ed increduli, indecisi se restare all’erta o scoppiare a ridere.
L’esserino, che indossava un gonnellino costituito da due pezze sporche, una anteriore e una posteriore, legate tra di loro da spago, o qualcosa del genere, ed appariva alquanto sudicio, rimase per un attimo impietrito alla vista dei tre uomini, poi improvvisamente, squittendo come un ratto, si mise a scappare di gran lena nella direzione da cui era giunto. Pluto, senza aspettare un ordine del padrone, si gettò all’inseguimento, sparendo immediatamente dalla vista. Questa improvvisa azione ridestò Simone, Antonio e Silvio dal loro stupore e subito imitarono il cane inoltrandosi tra i cespugli.
Non pensarono nemmeno per un istante alla possibilità che l’inseguimento li avrebbe, con ogni probabilità, portati ancor più fuori strada rispetto alla già difficile situazione in cui si trovavano.
Trascorso qualche istante si sentì il forte abbaiare di Pluto, poi un guaito e nulla più. Simone si allarmò immediatamente, il suo cane era stato ferito, accelerò il passo e sbucò in una radura, seguito dopo pochi passi da Antonio e Silvio. Le sorprese della giornata non sembravano essere finite: si trovarono innanzi agli occhi un piccolo accampamento con strane tende di pelli d’animale, tra le tende si rincorrevano altri esseri come il nasone di prima ma la loro attenzione fu attratta dall’enorme umanoide al limitare dell’accampamento. Era un essere enorme, alto molto più di due metri, con due spalle possenti, incredibilmente sproporzionato: la testa era troppo piccola, le braccia, muscolose e dall’aria potenti, troppo lunghe, le gambe troppo corte e la pelle era di un verde scuro che faceva pensare a qualcosa di marcio. L’essere aveva delle zanne, che gli uscivano da quella che doveva essere la sua bocca, paragonabili q quelle di un cinghiale ed occhi di un rosso lucente. Simone pensò di esser capitato sul set di qualche film di Hollywood, ma la bava che usciva dalla bocca di quel coso, il sangue del suo cane, morto a terra che colava dalla grossa mazza chiodata che teneva in mano, gli dissero immediatamente che qualcosa non quadrava.
Un campanello d’allarme atavico risuonò nella testa dei tre uomini. Il primo a sparare fu Simone. I pallettoni del suo Beretta semiautomatico cozzarono sull’armatura rappezzata in metallo e cuoio del mostro sorprendendolo per un attimo. Il secondo colpo raggiunse il grugno del “pelle verde”, i pallettoni roventi ne scalfirono la pelle senza penetrarla e lo ferirono ad un occhio. Grosso errore.
L’ira dell’orco fu irrefrenabile. Un bagliore rosso, demoniaco, gli uscì dall’occhio sano. Simile ad una locomotiva in corsa si scagliò verso Simone. La sua mazza balenò con una velocità alla quale un uomo non sarebbe mai stato in grado di muoverla, frantumò entrambe le braccia di Simone che ancora reggeva il fucile. L’uomo non soffrì a lungo, perché il secondo colpo lo prese in pieno viso e sfondandoglielo, lo uccise sul colpo. Silvio ed Antonio fecero fuoco increduli ma non ebbero ugualmente fortuna. L’orco sembrò avvertire i colpi come fosse stato punto da uno sciame di api fastidiose, sfondò il torace di Antonio con un poderoso colpo di mazza e finì Silvio colpendolo alle spalle più e più volte mentre cercava di fuggire. Quando la sua ira si placò, a terra c’erano due cadaveri ed una poltiglia irriconoscibile.